La proposta del Prof. Falsitta di trasformare una percentuale dell’imposta diretta in “tassa sull’evasione fiscale”, pubblicata su Il Sole 24 Ore di lunedì 12 settembre, appare sicuramente interessante e suggestiva. Tanto da poter ritenere che la suddetta quota parte dell’Irpef/Ires potrebbe divenire sia strumento di educazione al senso del dovere fiscale, sia strumento di pressione psicologica in mano ai contribuenti onesti nei confronti di Governo e Parlamento affinché perseguano più efficacemente l’evasione e riducano al più presto la quota dell’imposta assolta e ad essa dedicata.
Seguendo una visione un pò meno sofisticata, potremmo dire che la riduzione del problema a livelli più accettabili (non sarebbe realistico parlare di soluzione definitiva) non può che essere ottenuta utilizzando due strumenti: la compliance fiscale e una maggiore incidenza dei controlli “sul campo”.
Per rimanere al primo punto, un rinnovato rapporto tra Fisco e Contribuente deve essere realmente fondato su alcuni, basilari, principi costituzionali riaffermati anche dallo Statuto del contribuente: il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.), la riserva di legge per l’introduzione di prestazioni patrimoniali (art. 23 Cost.), la capacità contributiva in relazione all’uguaglianza (artt. 53 e 3 Cost.), la chiarezza e la trasparenza delle disposizioni tributarie (art. 2, Statuto), la non retroattività delle disposizioni (art. 3, Statuto), la collaborazione e la buona fede (art. 10, Statuto).
Ma, soprattutto, dovrà fondarsi sulla fiducia reciproca, senza la quale non potrà mai essere raggiunto alcun obiettivo di tax compliance.
Fiducia, ovverosia, avere fede, confidare nella capacità dell’altro di mantenere le promesse, di far fronte agli impegni assunti.
Ma siccome nessuno è portatore di un diritto naturale al rispetto e alla fiducia, è ovvio che ciascuno dovrà dimostrare di guadagnarsi quella dell’altro con comportamenti concreti e quotidiani, con la riconoscibile coerenza dell’azione al manifestato pensiero.
Per varie ragioni facilmente comprensibili, lo sforzo iniziale dovrà essere assunto dallo Stato-Amministrazione finanziaria che dovrà concentrarsi sul alcuni punti fondamentali.
In primo luogo la gestione degli interessi collettivi.
Ė necessario adottare, nella gestione della res pubblica, il principio per cui l’agire quotidiano deve essere guidato dalla “diligenza del buon padre di famiglia”. Non quella del “semplice” padre ma quella rafforzata del “buon padre”, così come prescritta dall’art. 1176 c.c. per l’esercizio delle professioni intellettuali.
E’ ovvio che tale gestione si pone in netto contrasto con un elevato livello di corruzione e concussione del potere politico e dei funzionari pubblici e privati, che rappresenta un abuso di potere serio e corrosivo, mina le basi del vivere sociale, distrugge la concorrenza tra i soggetti economici e crea un sistema fondato sulla protezione clientelare.
Combattere e vincere, quantomeno molte battaglie, contro questa piaga influenzerà il comportamento gli uni degli altri, eleverà il senso etico e morale e il rispetto delle regole, nonché il senso di appartenenza alla comunità e la percezione dello Stato come bene comune.
In secondo luogo la legittimità dell’imposizione e l’autorevolezza.
Lo Stato, quale soggetto impositore deve acquisire la necessaria legittimazione ad imporre, che potrà essergli riconosciuta, unitamente all’autorevolezza – qualità notoriamente diversa dall’autorità – solo se saprà porre sotto controllo la struttura della spesa pubblica e, in particolare, la destinazione del prelievo, ovvero, saprà garantire l’efficienza e la qualità dei servizi forniti. Questo inciderà sulla percezione di reciprocità del rapporto.
Come disse Luigi Einaudi, “il denaro dei contribuenti deve essere sacro”, quindi, non può essere sprecato. Chi lo spreca, o lo utilizza male, viola la disciplina morale ed etica allo stesso modo di chi non paga le imposte ma, a differenza di questi, non subisce alcuna sanzione. Solo nell’ipotesi in cui sia garantito il rispetto da parte di tutti dei principi etici e morali e, quindi, sussista la legittima potestà impositiva, si sarà realizzata la condizione racchiusa nell’espressione del giurista americano O.W. Holmes, “Tax are what we pay for civilized society” (Le tasse sono il prezzo che paghiamo per avere una società civile).
Considerato che l’Amministrazione finanziaria è il soggetto che, di fatto, viene percepito dal cittadino–contribuente come l’effettivo esercente la funzione impositiva (talora mista a una funzione pseudo normativa), appare evidente la necessità che lo stesso cittadino riconosca alla medesima tutta l’autorevolezza necessaria, sia per esercitare quel ruolo, sia per porsi come interlocutore nel rapporto di compliance. Gli esempi del passato (più e meno recente) in cui questa autorevolezza è venuta meno potrebbero rappresentare una occasione di riflessione per il futuro.
In terzo luogo si dovrà creare una nuova “cultura fiscale”.
Dopo aver dato concretamente il buon esempio, perché non sono sufficienti le mere enunciazioni di impegni e di principi, sarà compito delle istituzioni creare una “cultura fiscale” per intervenire sulle cause che generano la non compliance.
Per fare questo occorre promuovere una adeguata campagna di comunicazione, a diversi livelli, volta i) a rendere noti i comportamenti assunti, ii) a trasferire i principi e i valori sottostanti, quali, moralità, etica, rispetto delle regole, senso di appartenenza allo Stato, solidarietà, iii) a sottolineare l’importanza del dovere costituzionale di assolvere gli obblighi tributari, inteso come “atto civico” e non come atto dovuto sulla base di un mero intervento autoritario, anche dando la massima pubblicità alla percentuale di coloro che hanno adempiuto al dovere contributivo, iv) a enunciare le modalità di utilizzo delle entrate tributarie affinché sia chiaro l’impiego rivolto a generare servizi e prestazioni sociali visibili aventi anche finalità di redistribuzione del reddito, v) a informare che l’Amministrazione finanziaria è concretamente “a disposizione” del cittadino-contribuente per fornire tutto il supporto e l’aiuto necessario al corretto adempimento degli obblighi previsti e, infine, v) a informare sui risultati raggiunti.
Una comunicazione istituzionale, che parta dalle scuole di ogni ordine e grado volta ad instillare nei giovani quel senso civico e di appartenenza allo Stato che li farà diventare cittadini e contribuenti onesti. Ma che prosegua oltre e raggiunga, attraverso la televisione pubblica (e privata) e i media tradizionali e innovativi, tutti coloro che già oggi sono chiamati a pagare le imposte.
Attenzione, però, perché l’indirizzo della comunicazione non potrà mai ruotare attorno al concetto di “sacralità” assoluta del dovere di contribuzione, inspiegabile e possibile oggetto solo di un atto di “fede”, ma dovrà convergere sull’aspetto dell’impiego del denaro raccolto a favore della collettività sotto forma di servizi e prestazioni ben visibili.
Niente di diverso da quello che fanno gli esperti di marketing quando si occupano del c.d. branding, ossia della capacità di comunicare al mercato – attraverso uno stile visuale e un linguaggio efficaci – la mission, la vision, la storia, i valori e l’anima di un’azienda. In questo caso il branding sarà quello dello Stato e il suo sistema di valori, e il “mercato” non saranno i clienti ma i suoi cittadini.
Questo processo potrà e dovrà condurre a instaurare un rapporto “cittadino-centrico” e non “Pubblica amministrazione-centrico”, superando l’attuale rapporto di tipo gerarchico e unidirezionale per giungere a un rapporto bidirezionale, orizzontale e (semi)paritario. Quest’ultimo aspetto, in realtà, merita un chiarimento, perché siamo tutti consapevoli che, in linea generale, a fronte di uno Stato che è volto al perseguimento di interessi collettivi, vi sono i cittadini che tendono a perseguire interessi individuali che devono, necessariamente, essere compressi se si vuole privilegiare e raggiungere i primi.
Ma qualora nei cittadini sia forte il senso civico e il senso di stretta appartenenza allo Stato, tutti saranno portatori dei medesimi valori e tutti saranno tesi a un medesimo fine, quello dell’interesse della “comunità”, per cui “sentiranno” come propria la necessità di auto-comprimere i propri interessi individuali a favore di quella collettività alla quale si “sentiranno” di appartenere.
Questo dovrà essere l’obiettivo da perseguire senza remore o paure.
Infine, come in tutte le comunicazioni che si rispettino, fondamentale importanza assumerà la pratica del c.d. feedback: la P.A. dovrà costantemente interrogare i cittadini, contribuenti-utenti, sul grado di soddisfazione raggiunto, sul grado di corrispondenza tra aspettative del servizio ed effettivo livello della prestazione ricevuta. Questo sarà importante per orientare l’azione in futuro.
Non possiamo dimenticare che anche secondo l’OCSE, che ha esaminato i più recenti studi economici e di psicologia fiscale, il contribuente formula il suo giudizio sull’equità del sistema fiscale in primo luogo sulla base del tipo di relazione diretta che intercorre con l’Amministrazione finanziaria, e solo in secondo luogo valutando il sistema normativo e il comportamento, la capacità del legislatore.
Nell’ambito della nuova “cultura fiscale” rientra anche l’impegno a rompere la frenesia da gettito.
Da un lato, il legislatore non può legiferare in modo compulsivo e disordinato, modificando più volte, anche nel corso di uno stesso periodo d’imposta, l’impianto normativo. Il soddisfacimento delle esigenze di gettito dovrebbe essere assicurato da una manovra sulle aliquote, strumento tipico per elevare o ridurre l’imposizione.
Dall’altro, l’Amministrazione finanziaria non può muoversi verso i contribuenti sulla base di un budget predefinito di imposte da recuperare, solo perché le previsioni di maggior gettito sono già destinate a copertura di impegni di spesa assunti contestualmente, o a sostituire più incisive riduzioni di spesa. Questo induce l’Amministrazione finanziaria a chiudere l’attività ispettiva con accertamenti comunque positivi per l’erario. In questo modo si incrementa la sensazione di subire azioni repressive, ingiuste e vessatorie con l’effetto di minare ancora di più la fiducia verso l’Amministrazione finanziaria, la correttezza nei rapporti sottostanti e il rispetto verso le istituzioni. Al contrario, un approccio non viziato da questa “frenesia” induce il contribuente a ritenere che il rapporto con l’Amministrazione sarà permeato dal “rispetto delle regole”. Il maggior gettito recuperato dovrà essere destinato a ridurre il prelievo fiscale e contributivo.
Non meno importante è la questione costantemente sollevata della certezza del diritto.
Nell’attività legislativa e nella fase di applicazione delle norme, dovranno essere garantite la “certezza del diritto” e la “tutela dell’affidamento”, declinabili in stabilità delle norme, produzione ordinata, coerenza di sistema, rispetto del contribuente. L’incertezza e il disordine producono incomprensione e un effetto dirompente sulla programmazione dell’attività economica e sul “fare impresa”, non attirano gli investimenti ma li fanno dirottare verso altri sistemi più stabili. La fase interpretativa dovrà essere svolta nel rispetto dei propri ruoli e della “riserva di legge” prevista dal nostro ordinamento costituzionale, e nel rispetto dei principi introdotti dai padri fondatori del diritto tributario.
Non possono essere ancora tollerati interventi legislativi di tipo retroattivo, per di più introdotti nell’ultima parte dell’anno ma con effetti che coinvolgono fatti, atti o eventi già avvenuti nei mesi precedenti e oggetto di valutazioni di sostenibilità economica e di convenienza fondate sulla disciplina tributaria in quel momento vigente.
Cosi come appaiono inopportuni interventi pseudo legislativi dell’Agenzia delle Entrate che estendono l’ambito applicativo delle disposizioni approvate dal Parlamento o dal Governo, in aperta violazione del principio della riserva di legge ex art. 23 Cost.
Naturalmente, in questo nuovo approccio culturale alla fiscalità e alla compliance, dovrà trovare posto anche un rinnovato comportamento delle imprese.
Le imprese, in particolare, dovranno garantire un approccio alla variabile fiscale almeno bivalente: se, da un lato, la voce “imposte dell’esercizio” rappresenta un business cost che gli amministratori hanno il dovere di ridurre come impegno verso gli azionisti, dall’altro, costituisce un social levy, che la società ha l’obbligo di corrispondere alla comunità in quanto soggetto ad essa appartenente. Dovranno adottare un modo nuovo di fare pianificazione fiscale, fondata sulle ragioni di business, concrete ed effettive, sul rispetto della legalità, sull’etica sociale, perseguendo solo quel legittimo risparmio d’imposta garantito dai principi costituzionali, dalla normativa comunitaria e dall’interpretazione che di essa ne da la Corte di Giustizia UE, secondo gli indirizzi e le direttive assunte dalle istituzioni internazionali e comunitarie, nonché, ricordiamolo, dall’art. 10-bis, co. 4, dello Statuto.
Per finire, l’attività di accertamento dovrà essere indirizzata verso quelle categorie di contribuenti nelle quali il rischio di evasione d’imposta è più elevato e dove maggiore può essere la quantità di imposta recuperabile per singolo accertamento. Potranno essere utilizzati tutta una serie di strumenti presuntivi di capacità contributiva, alla costruzione dei quali dovranno partecipare anche le categorie economiche, ma l’evasione dovrà essere, alla fine, “provata”, al di là di ogni ragionevole dubbio. Non può appartenere alla nuova “cultura fiscale” l’idea invalsa nell’Amministrazione finanziaria, che tutti i cittadini-contribuenti siano, di base, dei disonesti. Ciascuno dovrebbe godere, quantomeno, del beneficio del dubbio, così come dovrebbe essere lapalissianamente accettata l’idea che, soprattutto in presenza di una legislazione estesa, frammentata e complicata come la nostra, è plausibile commettere errori e violazioni incolpevoli, e quelli di modesta entità dovranno necessariamente essere penalizzati di meno.
Diversamente, è assiomatico che la sensazione di essere colpiti ingiustamente minerebbe alla base il contratto di fiducia tra i cittadini-contribuente e l’Amministrazione finanziaria.
E mai nessuna compliance potrà realizzarsi.
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